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Articolo
scritto nel numero di Luglio
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2001
per
il mensile di Genova Opinione
“Il
dialogo”
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Articolo
apparso nel numero di |
Ottobre
2001
sul mensile di Genova
Opinione
“Il dialogo”.
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Articolo
apparso nel numero di GENNAIO
2002
sul mensile di Genova
Opinione
“Il dialogo”.
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Articolo
apparso nel numero di Ottobre
2002
sul mensile di Genova
Opinione
“Il dialogo”.
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Articolo
apparso nel numero di Marzo
2003
sul mensile di Genova
Opinione
“Il dialogo”.
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Articolo
apparso nel numero di
Maggio
2003 sul mensile di Genova
Opinione
“Il dialogo”.
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Articolo
apparso nel numero di
Ottobre
2003 sul mensile di Genova
Opinione
“Il dialogo”. |
SUDAFRICA,
ISTRUZIONI PER L’USO
Se vi è capitato, o vi capiterà mai di
andare a fare un viaggio in Sudafrica, tante sono le
cose che avreste voluto sapere al momento di fare le valigie.
Le guide spesso non aiutano: scialano
informazioni storiche artistiche e naturalistiche interessanti,
certo, ma il Sudafrica è anche altro.
Arrivando a Johsburg come familiarmente viene
chiamata Johannesburgh, la metropoli che
domina il tavolato del Transvaal, zona ricchissima di minerali preziosi,
si avverte immediatamente di trovarsi
in un posto veramente particolare.
La città con i suoi grattacieli e le sue
bidonville create dai regimi razzisti che si sono succeduti
nella storia, rappresenta tutte le contraddizioni di questo tormentato
paese.
Ma non perdiamo tempo; si procede
direttamente per la vicina Pretoria, capitale governativa
dello Stato e da lì in direzione nord si arriva a Ponda Maria township
nera al confine con lo Zimbawe e
soprattutto porta d’ingresso settentrionale del Kruger Park.
Entrando nel parco occorre segnalare ai guardiaparco il percorso di
massima e l’ora ed il luogo di uscita
ed è immancabile la raccomandazione dei Rangers di non scendere
per nessuna ragione dalla macchina per non diventare un pasto prelibato
per le belve. Poi
via, comincia un documentario naturalistico in diretta; in questa immensa
distesa capita di incrociare animali di
ogni genere in un silenzio irreale. Improvvisamente la quiete
viene rotta da una leonessa che dopo un inseguimento ad un branco di
zebre, riesce a sbranarne una proprio a
pochi metri dalla nostra jeep. Capita anche, con un po’
di preoccupazione, di incrociare rocciosi rinoceronti e vedere sguazzare
negli stagni immensi ippopotami; uno
spettacolo veramente incredibile.
Ma il Sudafrica non finisce di sorprendere;
uscito dalla parte meridionale del Kruger ci si
inerpica su un altopiano rotto da maestosi canyons; da lassù la vista
sulla savana è mozzafiato.
Il viaggio prosegue nella zona desertica e
ricchissima di diamanti di Kimberly, la patria della
De Beers con le sue miniere costate lacrime e sangue ad intere generazioni
di “coloured”. Non bisogna
assolutamente perdersi the “big hole” (la prima miniera di diamanti
ormai chiusa) e il museo dei minatori.
Scendendo ancora verso sud arriviamo in fondo
all’Africa dove il Capo di Buona Speranza
separa tra sferzate di vento fortissimo l’Oceano Atlantico
dall’Indiano.
No non siamo in California bensì a Città
del Capo, una splendida città stesa ai piedi della
Table Mountain. Gli abitanti del Capo possono scegliere
indifferentemente se andare a fare surf
o nelle gelide acque dell’Atlantico o in quelle più tiepide e
tranquille dell’Indiano.
Bastano pochi chilometri verso le colline
che, come per incanto, ci si ritrova in mezzo a splendide
tenute vinicole tra filari ordinatissimi ad assaggiare vini superbi in
attrezzatissime cantine sociali. Potremmo
tranquillamente essere nel Chianti o nel
Monferrato, siamo a Stellenbosh, terra
eccezionale per la vite portata e curata dai conquistatori
Boeri nel 1600. C’è ancora tempo per una romantica passeggiata nella
Garden Route ovverosia la rigogliosa e
fiorita costa indiana verso Durban e Port Elizabeth.
Viaggiare in un altro paese è immergersi in
una cultura, una civiltà, un’umanità diversa da
quella che conosciamo.
E’ un misterioso ed affascinante tuffo in
un altro mondo. Occorre, però, entrare bussando
alla porta, e parlare sottovoce, perché si è ospiti.
L’atteggiamento più sbagliato è quello di
chi crede di potersi comportare come a casa sua
(se non peggio) solo perché ha pagato. Un po’ di spirito di
osservazione, capacità di adattamento
ed umiltà, sono la polvere magica per vivere il viaggio come momento
per arricchirsi. Spalancate le porte dei cinque sensi, ma non
dimenticatevi del sesto. Per scoprire,
al ritorno, che il viaggio più bello lo si è fatto all’interno di noi stessi.
IRLANDA: UN
QUADRIFOGLIO VERDISSIMO
Quando si va in Irlanda dovete memorizzare
molto bene queste parole:birra, paesaggi verdissimi e simpatia.
Niente a che vedere con i compassati cugini
inglesi, gli “Irish” trasmettono un’allegria contagiosa
tale da farli sembrare quasi “napoletani”.
Non è uno scherzo; se vi capita di passare
per la via dei pub di “Baile A’tha Cliath” ovvero
città del guado della siepe, nome gaelico di Dublino, vi troverete in
mezzo a un esplosione di festa, canti e
balli, incoraggiati dai fiumi di “Guinness”.
Si la Guinness la birra scura bevanda
nazionale a cui nessun irlandese rinuncerebbe per
nessuna ragione al mondo.
E’ impossibile tornare dall’Irlanda senza
aver bevuto almeno una “paint” di birra.
Ma andiamo con ordine; dopo un bagno di folla
in mezzo alla gente di Dublino (come direbbe
Joyce) ci dirigiamo a sud verso Cork, la seconda città del Paese, sede di
una prestigiosa e antichissima
Università.
Da lì proseguendo per stradine di campagna
con guida rigorosamente a sinistra (eredità
britannica), andiamo a scoprire un miracolo della natura.
Siamo sul “ring of Kerry”; non è un
miraggio, ci sono le palme come ai tropici, la vegetazione
è rigogliosa e questo grazie alla corrente calda del golfo che raggiunge
questa penisola.
Procediamo lungo la baia di Dingle per
puntare con decisione verso nord.
Improvvisamente
le verdi colline d’Irlanda, punteggiate da una miriade di pecore e
mucche al pascolo, si gettano a strapiombo sul
mare per diversi chilometri. L’erosione secolare
dell’oceano ha formato delle vere muraglie di roccia; sono le Cliffs of
Moher uno spettacolo mozzafiato.
Andiamo avanti, ecco Burren, Galway e Donegal,
siamo nell’estremo nord del Paese e ci
troviamo di fronte un confine blindatissimo; stiamo per entrare dentro una
sanguinosa ferita nel cuore della
“civilissima” Europa, siamo nell’Ulster o Irlanda del Nord.
Scopriamo un lugubre simbolo, uno scheletro
con la falce su campo nero, è lo stemma di
Derry, come la chiamano i cattolici o Londonderry nome protestante.
C’è una tranquillità irreale l’odio
secolare si respira nell’aria; che tristezza!!
Anche in Ulster troviamo dei prodigi della
natura; sembra una gradinata di cubetti di altezza
diversa che scendono verso il mare; è basalto non è uno stadio!!
Da qui si passa per Belfast città molto
britannica e subito dopo si rientra nel cattolicissimo
Eire.
Il tour è finito, siamo ancora abbagliati
dal verde intenso di questa terra e dalla cortesia della
gente.
Abbiamo viaggiato tra le bellezze naturali e
le contraddizioni di un popolo fiero delle proprie
origini e tradizioni.
Ci siamo immersi in una realtà difficile da
scoprire ma appunto per questo ci siamo sforzati
di conoscere e capire con la massima umiltà.
Torniamo
a casa convinti di esserci arricchiti ancora; viaggiare resta e resterà
per sempre una delle esperienze più
interessanti che si possono fare.
Confrontarsi
ed immergersi in realtà diverse dalle nostre non può che accrescere il
nostro
bagaglio culturale.
Articolo apparso nel numero di Gennaio 2002
del mensile "Il Dialogo"
ATTRAVERSO IL NORD DELL’AMERICA DEL SUD
(Una galoppata attraverso i sentieri del
narcotraffico)
Isole caraibiche, coste meravigliose, picchi
andini oltre i cinquemila metri, distese
pianeggianti, cascate mozzafiato e la foresta
amazzonica. Questo cocktail di prodigi
della natura è il riassunto di quanto può essere
spettacolare e vario un viaggio
attraverso il Venezuela e la Colombia.
Spesso le agenzie di viaggio e i tour operator
pubblicizzano mete molto turistiche
piene di complessi alberghieri ma di scarso
interesse, mentre tralasciano regolarmente
paesi ricchissimi di bellezze naturali.
Per affrontare un viaggio in queste regioni
occorre essere al corrente dei rischi a cui si
va incontro anche se su questo argomento le guide
spesso hanno dei vuoti di
memoria.
Non voglio certo spaventare nessuno ma, basta
arrivare all’aeroporto di Caracas per
capire che l’atmosfera non è certo accogliente
come in qualunque paesino svizzero, ed
anzi l’aria che si respira è abbastanza pesante.
La Capitale Venezuelana si trova ai piedi della
classica valle a V con le montagne
che la proteggono o più correttamente la
circondano da Nord e da Sud.
Quando a Caracas scende la sera il paesaggio si
fa molto caratteristico; i fianchi dei
monti si accendono con decine di migliaia di
lumini….ma attenzione non è un
romantico presepe sono le baracche dei "ranchitos"
ovverosia i disperati abitanti
dell’immensa bidonville che domina la città.
E sono proprio questi milioni di diseredati che
fanno di Caracas una delle città più
pericolose del mondo; al punto che la sera per
andare dall’albergo al ristorante, anche
se si trova a duecento metri, occorre prendere un
taxi ufficiale se non si vuol rischiare
di venire accoltellati in mezzo alla strada.
Lasciata la metropoli Venezuelana ci dirigiamo
verso ovest costeggiando il mar dei
Caraibi, facciamo una breve deviazione attraverso
una fitta foresta pluviale per
giungere a Choroni, troviamo un cartello che ci
da il benvenuto nel "regno del tambor".
Il significato di questa insegna lo scopriamo
poco dopo; per tutta la notte il ritmo dei
tamburi è continuo, non accenna a scemare se non
alle prime luci dell’alba.
Il viaggio procede alla volta di Maracaibo, la
zona che fa del Paese uno dei più grossi
produttori al mondo di petrolio. E poi la strada
comincia a salire, prima dolcemente poi
in maniera più decisa fino a quando il cicalino
del mio orologio altimetro si mette a
suonare. Abbiamo raggiunto i quattromila metri di
altezza e la strada sale ancora;
siamo molto stupiti perché la vegetazione è
lussureggiante mentre da noi a quella
quota si scia tutto l’anno. Dalla capitale dello
stato andino Merida, città universitaria a
2500 metri, prendiamo la funivia "mas larga y
alta del mundo"; una vecchia teleferica di
fabbricazione francese degli anni ’60 che in
quattro tappe ci porta a 4500 metri.
Dopo questo "piccolo salto" il tempo di
acclimatarci e vestirci in maniera adeguata e ci
incamminiamo verso il Pico Bolivar a quasi 5000
metri senza vedere la neve!
Il saliscendi andino prosegue quindi in Colombia,
scendiamo fino al livello del mare per
visitare Cartagena, un pregevole esempio di
architettura coloniale spagnola.
Ma le emozioni non sono ancora finite, rientriamo
in territorio Venezuelano
attraversando la sconfinata regione pianeggiante
dei Llanos.
In questa zona dedicata principalmente
all’allevamento esistono fazende grandi come
intere provincie.
A Ciudad Bolivar ci imbattiamo in un fiume
gigantesco, è l’Orinoco che divide in due la
città. Nelle sale del caratteristico Hotel Italia
assoldiamo una guida indios ed
organizziamo un tour avventuroso nella Gran
Sabana. Con un precario aereo da
turismo sorvoliamo la foresta pluviale fino a
Canaima, villaggio di partenza per la visita
al Salto Angel (la cascata più alta del mondo).
Risaliamo il fiume Paragua a bordo di
una velocissima piroga superando impetuose rapide
e zone infestate di anaconde e
pirana. Proviamo anche l’ebbrezza di accamparci
in mezzo alla foresta, dormendo
sulle amache intorno ad un rassicurante falò. Il
tempo per una doccia rinfrescante
sotto il Salto Angel e riprendiamo il cammino
verso mete più rilassanti.
Infatti l’ultima settimana di soggiorno la
trascorriamo in un villaggio gestito da italiani
nella super turistica isola di Margarita e, prima
di imbarcarci sul volo per Milano,
facciamo in tempo a visitare l’arcipelago di Los
Roques con i suoi meravigliosi atolli.
L’esperienza è stata decisamente intensa; in una
terra dove i contrasti sociali
sono stridenti e la legge, purtroppo, è spesso
quella delle bande armate spalleggiate
dai cartelli dei mercanti di droga. La
popolazione delle campagne, come spesso
accade in America Latina, viene attratta dalle
grandi città con l’illusione di facili
guadagni. L’agghiacciante realtà è che questi
flussi di gente vanno ad ammassarsi
nelle favelas, ad ingigantire giorno per giorno
l’esercito dei disperati e della
delinquenza, mentre i governi di quei paesi
asserviti alle multinazionali occidentali e del
narcotraffico, sono assolutamente incapaci di
risolvere i problemi basilari della
popolazione.
Viaggiare significa anche immedesimarsi con la
realtà locale, osservare, rispettare e
soprattutto capire. Ma la regola principale è
soprattutto quella di stare molto attenti a
non emettere facili sentenze.
Enrico VERNAZZA
GHIACCIO BOLLENTE
(cronaca di un tour in Islanda)
Un viaggio in Islanda, il sogno di un ragazzino che,
diventato adulto, si avvera più intenso e vivo che mai.
Ma cosa trova di così speciale il visitatore che
sbarca all’aeroporto di Keflavik?
La prima sensazione atterrando in Islanda è quella
di essere giunti sulla luna.
Una striscia d’asfalto attraversa un deserto di
rocce e crateri completamente disabitato che termina appena nei
pressi della capitale Reykjavik.
Con efficienza sorridente e informale tipicamente
islandese, la ragazza dell’agenzia di noleggio ci consegna la chiave
che consentirà di aprire molte porte, di giungere in luoghi di rara
bellezza.
E’ la chiave di un fuoristrada a quattro ruote
motrici, che diventerà quasi la nostra casa viaggiante per vedere
una nazione senza ferrovia, senza esercito e senza disoccupati.
Siamo nella terra col più alto tasso di
alfabetizzazione del mondo e del più antico parlamento d’Europa, nel
paese che detiene il record di avere avuto la prima donna eletta
capo dello Stato, Vigdis Finnbogadottir (e per la bellezza di 16
anni).
Con una popolazione di 270.000 abitanti di cui la
metà residenti nella capitale su una superficie di poco superiore a
quella del Portogallo, l’Islanda conta ben quattro compagnie
teatrali professioniste, un balletto nazionale, un’opera e
un’orchestra sinfonica, un’industria cinematografica piuttosto
attiva e un festival d’arte d’importanza internazionale. Questo
insieme alla più alta densità al mondo di personal computer ed
accessi Internet per abitante, la dice lunga sull’altissimo livello
culturale degli islandesi.
Certo, arrivando a Reykjavik e osservando le
multicolori casette di cui è composta sembra, più che una Capitale
un paese costruito col Lego. Ma addentrandosi nella città si avverte
immediatamente l’energia e la vitalità dei suoi abitanti.
Reykjavik è scalpitante, effervescente come un
giovane vulcano e se qualcuno si mostra sorpreso di trovare tanta
vitalità in un’isola persa nell’Atlantico, a pochi passi dal Circolo
Polare Artico, sono gli islandesi a mostrarsi stupiti:
"Ma che isolati, siamo in mezzo al mare tra l’Europa
e l’America,una posizione strategica". L’unicità della Capitale sta
nella sua straordinaria vita sociale e notturna: con una popolazione
che per oltre il 60% ha meno di 39 anni non potrebbe essere
altrimenti. Per la gioia di chi ama tirare tardi, la notte non è mai
piccola, soprattutto nei mesi in cui il sole non si decide a
tramontare.
Viaggiando lungo la strada numero uno si attraversa
una natura straordinaria con fenomeni naturali che vengono dal
passato, modificano il presente e garantiscono il futuro.
Quando arriviamo ad Akureyri, dopo aver sostato
davanti all’acqua verde smeraldo di Hraunfossar, la prima di una
serie infinita di cascate, ci accorgiamo di non renderci più conto
se è giorno o notte. La luce è quasi sempre uguale per tutte le 24
ore.
Raggiungiamo la zona termale del lago Myatan, luogo
di villeggiatura ricco di grotte con naturali idromassaggi. Ma la
sorpresa è che qui, al confine col circolo polare, troviamo
tantissimi funghi porcini che da queste parti non raccolgono
neppure.
Proseguiamo il viaggio tra guadi di fiumi impetuosi,
scalate di vulcani inquietanti e mangiate di aringhe deliziose,
merluzzi e scampi giganteschi (la pesca è la prima industria
nazionale) .
Tutta l’isola è percorsa da un’energia geotermica
eccezionale che, convogliata, riscalda le case e non inquina. L’aria
è pura, ma anche l’acqua dei fiumi che escono dai ghiacciai lo sono.
Completando il giro della ring n. 1 incontriamo il
ghiacciaio più vasto d’Europa, il Vatnajokull, un’incredibile massa
di ghiaccio in movimento grosso come l’Umbria che nasconde sotto di
se due potentissimi e vivacissimi vulcani che quando eruttano
provocano inondazioni bibliche.
Prima di terminare questo appassionante tour
facciamo a tempo ad osservare lo stupefacente Grande Geyser, la meta
forse più turistica del Paese, capace sempre di emozionare i
visitatori con in suoi poderosi getti d’acqua bollente.
L’Islanda, il mio sogno tramutato in realtà, non mi
ha deluso, con la sua luce magica che non c’è in nessun’altra parte
del mondo. Questa grande Isola fa subito capire al visitatore quali
sono le regole che la abitano: il freddo, l’acqua che ribolle, la
lava che scorre, il mare che si guarda da lontano e non si nuota. Ci
si ricorda qui dei quattro elementi che compongono il mondo, la
potenza dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco. E noi che
siamo lì, nell’isola abitata da magici elfi, ritroviamo la materia
del nostro corpo e l’anima della nostra mente.
AFORISMI e FRASI SIGNIFICATIVE
 |
"Di mestiere vendo levrieri ai ciechi che hanno fretta"
|
M. Zucca
 | "Io sono dei giovani e dei vecchi, degli stolti e dei saggi,
incurante degli altri, riguardoso di tutti". |
Walt Whitman
 | "Se non mi trovi subito non scoraggiarti, se non mi trovi in un
posto cerca in un altro, da qualche parte starò fermo ad aspettare te". |
Walt Whitman
 | "Io Pitagora, per l’aria che respiro e per l’acqua che bevo, non
sopporterò alcuna obiezione su ciò che sto per dire". |
Diogene Laertio
 | "Ci sono persone che sanno tutto e questo è tutto quel che sanno". |
F. Shiller
 | "Non so se andrò in paradiso o all’inferno, ma so che ci andrò da
Genova. |
E. Vernazza
 | "Raffrontarsi vuol dire capire, capire non vuol dire essere
pedissequamente ossequienti". |
E. Buggi
 | "Se tu ami veramente qualcuno lo lasci libero. Se torna è tuo per
sempre. Se non torna non è mai stato tuo". |
Anonimo
 | "Non cercare un amico perfetto. Cerca un amico". |
Anonimo
 | "Chi abbandona i propri sogni è destinato a morire". |
Paolo Mantovani
 | "Non è bello farsi bello con le penne del pavone". |
Anonimo
 | "Non cercare una donna perfetta, cerca una vera donna". |
Anonimo
 | "Non vorrei diventare socio di un’associazione che mi accetta come
socio". |
Anonimo
 | "Restituire Genova ai Genovesi". |
E. Vernazza
 |
"Fama veris addere falsa gaudet et e minimo sua per
mendacia crescit – La fama gode nell’aggiungere cose false a quelle vere
e cresce da un nonnulla per le sue stesse menzogne". |
Ovidio
 | "Noi siamo noi y loro sono loro". |
Vujadin Boskov
 | "Sogni. Sono solo sogni, quelli che ci legano alla realtà". |
E. Vernazza
 | "Segui sempre un vento che ti porta sempre dove tu non sai. Oh se tu
sapessi dove, scopriresti l’attimo della tua eternità". |
E. Vernazza
 | "Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l’ho scordato". |
Walt Whitman
 | "I have no plans, no date, no appointments with anybody". |
J.F. Kennedy
 | "Io ho paura solamente delle cose che non capisco". |
Fabrizio De Andrè
 | "Quando si muore si muore soli". |
Fabrizio De Andrè
 | "Tirai una freccia in cielo per farlo sanguinare. C’è un dollaro
d’argento sul fondo del Sand Creek. A volte i pesci dormono sul fondo
del Sand Creek". |
 | "Le donne di Genova portano gonne strette e non ridono per niente. E
pensano sia normale mettersi a letto e leggere il giornale". |
Francesco Baccini
 | "Non si desidera ciò che è facile ottenere". |
Ovidio
 | "I believe in a place called hope – Io credo in un posto chiamato
speranza". |
Bill Clinton
 | "La giustizia è come un timone. Dove lo giri và". |
Franco Freda
 | "Non conservare niente per un’occasione speciale, ogni giorno che
vivi è un’occasione speciale". |
Anonimo tibetano
 | "Dai alla gente più di quanto si aspetta e fallo con piacere". |
Anonimo tibetano
 | "Sorridi quando rispondi al telefono. Chi ti chiama lo potrà sentire
nella tua voce". |
Anonimo tibetano
 | "Se qualcuno ti fa una domanda a cui non vuoi rispondere, sorridi e
chiedigli: perché lo vuoi sapere". |
Anonimo tibetano
 | "Sposati con una donna alla quale piaccia conversare. Quando sarete
anziani la vostra abilità nel conversare sarà più importante di
qualsiasi altra cosa". |
Anonimo tibetano
 | "Alles hat ein ende, nur die wurst hat zwei – Tutto ha un fine, solo
il salame ne ha due". |
Anonimo tedesco
 | "La politica dei cittadini. Un paese e una società progrediscono se
sono in grado di fondere interessi collettivi individuali in modo tale
da far crescere entrambi". |
Cipolletta
 | "L’amore è eterno finchè dura". |
Henry De Regnier
DAL TROPICO DEL CAPRICORNO
A CAPO HORN
La parola Cile, nella lingua degli indios Aymara,
antico popolo andino, significa "là dove finisce la terra". Sembra uno
slogan pubblicitario per depliant turistici, ideale per attrarre
amanti delle destinazioni limite. Eppure forse mai come in questo caso
vale la frase, spesso abusata, del mondo ai confini del mondo.
Il Cile è infatti una striscia di terra sottile,
stretta tra il Pacifico e le Ande, larga in media 180 Km e lunga ben
4300. Una "follia" geografica, con la testa ai tropici e i piedi al
Polo Sud e, di conseguenza, un campionario unico di ambienti e
suggestioni naturali: deserti di sale e fiordi ghiacciati, steppe
ventose e vulcani innevati, mari tempestosi e isole perdute. Spazi
remoti, dove lo stereotipo del limite si fa realtà e lo spaesamento
tanto caro ai viaggiatori di frontiera diventa possibile.
Il Cile, nel linguaggio della politica
internazionale, evocava fino a qualche tempo fa il golpe contro
Allende e i diciassette anni di dittatura militare. La democrazia è
tornata nel 1990 ed oggi il Cile, a distanza di tredici anni, è
considerato il paese più ricco e stabile dell’America Latina , con
tassi di crescita record (7,2 per cento l’anno) e una pace sociale
invidiabile.
Santiago è lo specchio del momento felice che vive
il Cile, con interi quartieri nuovi che avanzano nella vallata. La
capitale non è bella, ma è il cuore, un po’ nordamericano, un po’
andino del paese. E’ per questo motivo che dovete fare visita a
Santiago. Per avere un’idea di come vive un terzo dei quindici milioni
di cileni meticci bianchi e indios che la popolano, sotto la
cordigliera che incombe sui grattacieli di Las Condes e i viali molto
frequentati la notte di Suecia.
Non si può rinunciare ad una visita al mercato
central tra banchi di pesce e frutta e i chiassosi ristorantini alla
buona.
In volo verso il nord del paese il panorama si fa
sempre più arido e il deserto di Atacama (in certe zone non piove dai
tempi della colonizzazione spagnola, quattro secoli fa) occupa la gran
parte. Le sue dimensioni gigantesche racchiudono ricchezze sotterranee
che costituiscono le fondamenta dell’economia cilena (il rame incide
per il 40% sulle esportazioni del paese).
Fermarsi nella piccola oasi di San Pedro de Atacama
è quasi un obbligo; il fascino che emana questo paesino fa dimenticare
lo scorrere del tempo. Nei dintorni lo spettacolo continua, si
attraversa la pianura di cristalli del Salar de Atacama per osservare
gli splendidi flamingo e, a mezz’ora di distanza c’è la valle della
luna, un luogo incantato dove la sabbia è così fine da lasciarsi
scivolare dalla sommità delle dune a piedi nudi; andateci al tramonto
e aspettate che la luna arrivi in cielo a illuminare i monti e i
canyon. Partite di notte, invece, per raggiungere dopo quattro ore di
fuoristrada i geyser a 4500 metri di altitudine di El Tatio, getti
d’acqua calda a 85° di dieci metri di altezza, visibili solo all’alba.
A queste quote attenzione al mal di montagna, il puna, da prevenire
camminando lentamente e bevendo una tisana con foglie di coca, un
antico rimedio locale.
Scendendo verso sud si attraversa la regione
semiarida del Norte Chico e poi la fertile valle centrale, il cuore
agricolo e industriale del Cile. E si giunge alla regione dei laghi,
incorniciata da coni vulcanici innevati, molti dei quali ancora
attivi, e punteggiata da chalet in stile bavarese che fanno pensare di
essere in Germania. E invece siamo nella terra dei Mapuche, gli ultimi
indios a cedere agli Spagnoli, soltanto cento anni fa, dopo una fiera
lotta secolare. Qui il paesaggio comincia a essere disegnato più
dall’acqua che dalla terra e si frantuma in una cascata di isole,
fiordi, canali e ghiacciai. Giù, giù, fino all’estrema punta
meridionale del Cile e dell’America, Capo Horn, alla confluenza
burrascosa dei due oceani di fronte all’Antartide.
Puerto Montt, capoluogo della regione, è la base
per raggiungere diverse destinazioni. Oltre ai laghi, le lagune e le
isole come la magica Chiloè. L'isola delle case di legno colorate con
i tetti in lamiera ondulata, delle palafitte a schiera in riva al mare
a cui ancorare le barche durante l’alta marea.
Il viaggio prosegue verso l’estremo sud australe,
raggiungibile oltre che in poche ore di aereo, anche con una lunga
crociera tra i fiordi e la fantastica lingua di ghiaccio della laguna
San Rafael.
Una volta arrivati in questa zona rilassatevi.
La Patagonia e la Terra del Fuoco appartengono alla
categoria dei paesaggi dell’anima, spazi che "permettono di guardarsi
dentro e capirsi meglio" suggerisce Sepulveda.
Montagne granitiche e ghiacciai secolari; un
sistema intricatissimo di isole, canali e coste; distese pianeggianti
e foreste millenarie intervallate da fiumi cristallini e lagune
colorate, regno di gauchos, pecore e guanachi, parenti meno nobili del
lama.
Infine, prima di lasciare il limite del mondo,
ricordatevi di guardare il cielo. Di notte lo spettacolo delle stelle
dell’ emisfero australe aumenterà la consapevolezza e il gusto di
stare dall’altra parte – alla fine del mondo.
Enrico VERNAZZA
QUANDO SI DICE CORSICA…
A quest’isola mancano due cose: il brutto della vita e la
pianura.
La Corsica, che i greci chiamavano Kallisto, la Bellissima,
è uno scrigno di bellezze naturali che si offrono al
viaggiatore in tal quantità da farla apparire come una terra
felice ove improvvisamente svaniscono problemi e
preoccupazioni…
Allo sbarco Bastia ci saluta con un cielo nero che non
promette nulla di buono, affrontiamo immediatamente una dura
e tortuosa salita verso il Col de Teghime alla cui sommità
veniamo inghiottiti da una fitta nebbia. E’ così che ci
accoglie l’isola ed è da qui che si comincia a capire il
senso della Corsica.
Imponenti montagne che precipitano nel mare azzurro ed un
caldo secco che la brezza marina non riesce ad alleviare.
Gli spettacolari vigneti di Patrimonio appaiono come uno
sberleffo una volta entrati nel torrido deserto degli
Agriati. Il deserto è un labirinto di vallette colonizzate
soltanto dal vento e dal sole. Il mare è lontano ed anche il
silenzio, talvolta pressoché assoluto, si offre solo a
tratti mimetizzato in un ribollire di sibilanti refoli
d’aria che fuggono verso la costa.
Si supera la Bocca di Vezzu e si precipita sul Mare. Ile
Rousse e poi Calvi la “Semper fidelis” alla “Superba” come
recita l’iscrizione all’ingresso dei suoi bastioni
imponenti. E poi….localini e spiagge e le immancabili torri
Genovesi edificate in tutta l’isola a difesa delle baie. Il
segno di 500 anni di dominazione Genovese è palpabile in
tutta la Corsica.
Doppiata Calvi si procede verso Sud, la strada serpeggia tra
fiordi incantati dipinti dalle infinite tonalità di azzurro
del mare. Si segue integralmente il ribelle disegno della
costa ubriacandosi di curve e saliscendi. Arrivati alla baia
di Nicchiareto si abbandona per qualche chilometro la costa.
L’interno è brullo e un po’ ci ricorda le ambientazioni di
tanti spaghetti western.
Di nuovo la strada torna sul mare, il golfo di Galeria si
chiude sulla selvaggia valle del Fango. Una piccola strada
risale la valle offrendo sorprendenti scorci di un mondo
antico fatto di pareti verticali dominato dalla mole del
Paglia Orba.
Galeria è un piccolo nucleo di case assopite a mezza costa
sopra il lembo meridionale della baia ed è anche un porto
strategico per una visita al parco marino di Scandola.
Intanto la strada ha ripreso a salire dirigendosi ancora
nell’entroterra. Tra un canalone e l’altro raggiungiamo il
Colle della Palmarella dalla cui sommità si apre una
spettacolare vista sul golfo della Girolata. Svalichiamo il
Col de la Croix e planiamo dolcemente su Porto. La marina è
strappata alla stretta gola terminale del fiume omonimo. Il
bel porto, dominato dalla solita torre Genovese, brulica di
localini e turisti. Salendo verso Piana il panorama delle
calanche al tramonto si fa mozzafiato. Un rosso intenso
incendia la miriade di guglie e pinnacoli che si stagliano
tra la strada ed il mare che giace lontano attraversato da
un riflesso arancione che sfuma all’orizzonte. Scendiamo
quindi verso Cargese dove ci troviamo catapultati in un
altro mondo. Siamo sulla spiaggia del Club Med che ci
accoglie con le sue musiche allegre, le divertenti attività
sportive ed i giochi un po’ pazzi…potremmo essere in
qualunque posto del mediterraneo ma a noi adesso interessa
la Corsica. E quindi superato il Col di San Bastiano
scendiamo tra il traffico della capitale Ajaccio, visitiamo
la parte storica della città e facciamo sosta davanti alle
bellissime isole Sanguinarie. Lasciata la patria di
Napoleone proseguiamo la nostra discesa verso Sud. La sosta
alla spiaggia di Olmeto è obbligatoria e qualcuno azzarda
anche il primo bagno stagionale. Costeggiamo il golfo di
Valico e giungiamo a Propriano, cittadella nervosa che
domina dall’alto l’ampio porto turistico. Lasciamo
nuovamente il mare per salire a Sartene che alcuni
considerano il cuore della Corsica più vera. Da lì alla
splendida Bonifacio il passo è breve, il paese di pietra
edificato sulla scogliera ci accoglie con la sua bellezza
disarmante. Il vento sferza le tumultuose acque delle Bocche
con le onde che si scagliano contro le muraglie bianche e
sullo sfondo la Sardegna. I quaranta chilometri che ci
conducono a Porto Vecchio sono intervallati dalle più belle
spiagge dell’isola. Non ci sono mangrovie o palme ma le
pinete che insieme ai cespugli di mirto, lentisco e tamerici
provocano una visione ancora migliore delle isole caraibiche.
Se vi piace il viaggio ozioso non avete altro da fare che
tirare il lettino nell’acqua bassa della Rondinara,
sdraiarvi, aprire un libro o chiudere gli occhi e farvi
servire un moscato dell’isola freddo…il Paradiso deve essere
circa così…
Dopo una serie di tuffi nell’acqua cristallina della baia di
Santa Giulia e alla Palombaggia e superata la chiassosa
Porto Vecchio dirigiamo a Nord. Ad Aleria ci buttiamo
nell’interno e seguendo il maestoso massiccio del Cinto
arriviamo all’antica capitale Corte. La città arrampicata
sulla rocca rappresenta l’emblema dello spirito
indipendentista corso. Ascoltiamo alcuni locali parlare
corso, una lingua così particolare con assonanze sarde,
genovesi, toscane e sicuramente molto distante dal francese.
In trequarti d’ora arriviamo a Bastia. Il tour de Corse è
finito, a mezzogiorno la nave salpa e ci regala, navigando
parallela al “dito”, un lungo arrivederci da parte di quest’isola
ancora selvaggia ed intrigante.
ENRICO
VERNAZZA
SCOTLAND FOR GOLF
Cronaca di una settimana tra gli
sterminati green scozzesi
Scotland for golf non è soltanto il
titolo dell’articolo, è soprattutto la creatura di un bravo
e paziente maestro di golf scozzese che risponde al nome di
George Finlayson.
Tutto è cominciato una caldissima serata
di fine luglio davanti ad un aperitivo in riva al mare, il
caldo era opprimente come lo è stato per tutta l’estate.
Avevamo voglia di fresco e soprattutto di conoscere il mondo
del golf. E quindi, cosa meglio della Scozia e di un corso
di golf nella patria di questo sport.
Occorreva quindi reperire velocemente
informazioni per organizzare il tour. Interpellati gli amici
golfisti e le agenzie di viaggio che operano nel settore,
nessuno è stato in grado di aiutarci. Tutti avevano sentito
di corsi di golf in località balneari sparse per il
mediterraneo ma nessuno sapeva nulla relativamente alla
Scozia.
Nonostante le avversità non ci siamo
persi d’animo e soprattutto grazie alle informazioni
raccolte su internet siamo giunti in contatto con
l’organizzazione di George.
Il sogno stava per realizzarsi….stavamo
per andare a fare una "clinic" di golf a St. Andrews
ovverosia nella località dove nel 1400 questo sport è stato
inventato.
E’ impossibile non farsi coinvolgere dal
golf in questo magico paese medievale circondato dai più bei
green del mondo.
A St. Andrews la diciottesima buca, il
capolavoro di Tom Morris, del più antico campo del mondo,
"l’Old Course", finisce direttamente in paese.
Scotland for golf cura ogni minimo
particolare, dalla sistemazione che va dall’hotel cinque
stelle al Bed and Breakfast, al corso personalizzato da due
a più giorni, al noleggio di tutta l’attrezzatura. La
giornata comincia presto alle 7,30 e dopo un’abbondante
colazione ci viene a prendere lo shuttle bus del golf che ci
porterà alla Club House. L’autista è un simpatico pensionato
inglese appassionato di musica lirica che, per farci sentire
a casa nostra, ci fa sentire le opere di Pavarotti mentre
attraversiamo i verdi green che si susseguono a perdita
d’occhio.
Alla Club House ci aspetta il nostro
tutor. George è una persona squisita, ci accoglie mettendoci
subito a nostro agio senza farci minimamente pesare il fatto
che ci parla in un’altra lingua.
Il suo inglese è molto chiaro e semplice
ed ha sempre pronta la battuta per sdrammatizzare il nostro
ennesimo colpo sbagliato.
Qui è tutto incredibile a cominciare dal
servizio offerto in campo pratica. I driving sono rasati e
preparati come dei green e ognuno di noi ha a disposizione
un’infinità di palline. Siamo solo nel campo pratica ma
siamo circondati a 360° dai sei campi di St. Andrews, Old
Course, New Course, Jubilee, Eden, Strathtyrum, Balgove e
l’emozione è la stessa, come se fossimo lì a giocare insieme
ai professionisti.
Ho sempre privilegiato gli sport d’azione
dove oltre al contatto diretto con gli avversari è la forza
fisica a farla da padrone e purtroppo questo si vede
facilmente nel momento dello swing, quando agendo con troppa
energia, appaio completamente scoordinato. Ma George è lì
paziente a farmi capire che non occorre tutta quella forza
per colpire la pallina ed anzi mi invita, per imparare il
movimento corretto, ad osservare il suo swing che sembra la
cosa più facile e naturale del mondo.
Alla lezione pratica segue, sempre in
campo, quella teorica con insegnamenti vari dal
comportamento sul campo alle regole del golf.
Il cuore batte forte quando George ci
porta sul campo. La preparazione dei driving è eccezionale,
abbiamo provato una grande emozione a giocare a St. Andrews,
un vero tempio, dove si trovano i campi più belli che
esistano al mondo. Il campo tecnicamente è ottimo e
panoramicamente è spettacolare, in fondo al verde infinito
si staglia il borgo medievale, la Royal Ancient Golf Club
che stabilisce le regole del golf in tutto il mondo e sulla
sinistra l’azzurro del mare; che pace, che tranquillità!
Il trattamento riservato a noi "beginners"
è inimmaginabile per un principiante che gioca in Italia.
George ci fa provare e riprovare ogni situazione. Che
soddisfazione superare il muro insormontabile del "bunker"
sollevando una nuvola di sabbia dopo aver zappato in lungo e
in largo tra le risate di tutti.
Sono molto orgoglioso quando sento lo
schiocco della pallina dopo aver completato uno swing
perfetto, che soddisfazione girarsi sulla sinistra e seguire
la lunga traiettoria.
Sentiamo già che fare questa "clinic"
scozzese sia stata la miglior cosa che si potesse fare per
la nostra futura carriera di golfisti.
Abbiamo lavorato anche a controllare la
lunghezza dello swing attraverso il movimento rotatorio del
corpo. Non ci possiamo lamentare dei risultati raggiunti
sinora e siamo felici perché sappiamo che ritornando in
Italia, giocando assiduamente e con fiducia sulle nostre
possibilità, riusciremo a raggiungere l’agognato handicap.
Al termine di questa esperienza
verdissima ci rendiamo conto che a differenza di tutti gli
altri sport il golf ha il potere di liberare la nostra mente
da tutto, l’unico pensiero è la sfida contro se stessi. Ci
troviamo a scoprire che alcune sensazioni provate possono
essere traslate nella vita di tutti i giorni come quando
dopo una serie di swing sbagliati ci si rende conto che
invece di intestardirsi è meglio praticare lo swing senza la
pallina e non pensare più a nulla, come per incanto al primo
colpo con la pallina lo swing riuscirà perfetto. E quindi ci
si domanda perché adesso non possiamo più fare a meno del
green.
E allora penso perché il green vuol dire
concentrazione e cura anti stress. Perché sul green termina
tutto o in parte il nostro gioco. Perché si può sempre
cominciare da capo. Perché dopo aver tirato centinaia di
palline, capita anche di imbucare da fuori. Perché il green
è un punto d’arrivo, la sintesi, l’area di rigore, il putt
da 10 o più metri, o quello sbagliato non si sa come. Perché
il green è il risultato, la gioia, la delusione. Perché il
green appare quasi sempre come un miraggio ed è la visione
più bella di un campo da golf. Perché il green può anche
riassumere la filosofia di una vita; la speranza, la
quintessenza d’una ricerca che non ha mai fine; il desiderio
di giocare "contro", ma anche il piacere di passare
"insieme" una giornata d’incanto, su un infinito prato verde
con un raggio di sole che si intrufola e si frantuma tra i
rami di un albero, mentre sul blu dell’orizzonte danzano
cirri di nubi. Perché, prima o dopo, incontrerò su un green
i miei amici, e sarò felice di giocare con loro, e di
meditare, perché no, sui nostri errori, con la speranza che
un nuovo driver ci faccia diventare più bravi. Perché il
green è un luogo della mente, lo spazio di un’emozione.
ENRICO VERNAZZA
I COLORI
DEL MAROCCO
Ci sono luoghi
che si distinguono dagli altri in base al modo in cui ci si
appresta a visitarli. Il Marocco è uno di questi. Terra di per
sé affascinante, ricca di seduzione e magia, può diventare
qualcosa di assolutamente speciale se, lasciando momentaneamente
da parte agi e comodità, si decide di diventare, a scelta,
predoni del deserto, incantatori di serpenti o avventurieri su 4
ruote. Senza fretta, con un po’ di coraggio e molta energia.
Perché questo non è il solito viaggio in Marocco.
L’avventura può
cominciare o finire a Marrakech. Che sia un punto di partenza o
di arrivo, “la città rossa” va vissuta. Sì vissuta non vista,
perché da vedere, artisticamente parlando, non c’è un gran chè.
Certo è che
l’antica capitale imperiale della dinastia degli Almoravidi non
ha bisogno di architetture monumentali per attirare su di se
milioni di occidentali, per lo più beautiful people tra
stilisti, artisti e star internazionali, che si sono
letteralmente stanziati nei più bei riad marrakchi. Quale sia
esattamente il fascino conturbante di questa città non ha modo
di esprimersi a parole.
Dire che il
centro geografico di Marrakech custodisce la Medina più
affascinante dell’intero Marocco non ha abbastanza vigore.
Cambierà radicalmente il senso di questa definizione,
trascorrere anche pochi minuti (che diventeranno fatalmente ore)
dentro quel catino della provocazione e della pantomima noto al
mondo col nome di Jemaa el-Fna. Giocolieri, saltimbanchi,
narratori e filosofi, acrobati, artisti itineranti dispensatori
di sogni, profezie e anatemi, negromanti e cerimonieri,
irradiano energia da tutti gli angoli della piazza e,
soprattutto, si fanno vedere. Chi vende henné, chi la felicità
sotto forma di un curioso talismano, mentre i serpenti danzano
sinuosi al suono di un incantatore, qualcun altro raggiunge la
trance e la promette al miglior acquirente. In una orgiastica
esibizione collettiva, l’anima del Marocco si scompone e
ricompone tra questi banchi asimmetrici, nel chiacchiericcio
incomprensibile di una lingua sconosciuta, nel suolo di un
palcoscenico color ocra dove si esibiscono creativi ed artisti
in cerca di pubblico. Si può scegliere di essere spettatori o
protagonisti ed ecco che, di nuovo, la prospettiva del viaggio
muterà profondamente. Non stupisce che l’Unesco nel maggio 2001
abbia coniato l’inedito concetto di “patrimonio immateriale” per
poter inserire l’anima della Medina tra i capolavori mondiali.
Un’anima che vive di pura oralità, e che di questo ridondante
tam tam tribale ha fatto la sua forza, la sua tradizione, la sua
fede.
Lasciando
Marrakech, l’avventura prosegue verso l’Alto Atlante. La nostra
auto si arrampica sui tornanti stretti e sinuosi, da un lato la
cima elevata di un monte, dall’altro lo sguardo spazia su un
paesaggio che ricorda i grandi canyon dell’Arizona, mentre
davanti a noi c’è un fitto bosco di larici. Stiamo salendo verso
quota 2260 metri, fra pochi minuti saremo sul passo di
Tin-n-Tichka.
Dopo aver
scollinato sull’Atlante, si apre un paesaggio a dir poco
affascinante: è qui che comincia il Marocco più vero e
caratteristico. Ed ecco che d’improvviso ai lati della strada
scorrono come in un film le prime kasbah, vecchi ma sempre
splendidi palazzi fortificati che, costruiti con un impasto di
argilla, fango e paglia, si confondono e ben si mimetizzano col
rosso circostante delle rocce sulle quali si abbarbicano,
dominando la valle, al riparo una volta dagli attacchi dei
predoni del deserto. E Ait Benhaddou ne è splendido esempio, una
kasbah dove si riesce ancora a respirare quell’atmosfera così
ben descritta nel “Tè nel deserto”, girato proprio qui fra gli
stretti vicoli che s’incrociano l’un l’altro inseguendo l’ombra.
E qui ai margini del deserto l’ombra è un bene prezioso, come
del resto l’acqua, elemento fondamentale e indispensabili per la
vita di questi luoghi. Sì l’acqua. Ovunque vi sia la possibilità
di sfruttarne le falde acquifere del sottosuolo, lì sorge
un’oasi, una grande macchia verde brillante che d’improvviso
appare ai nostri occhi entusiasti e che contrasta con la terra
rossa del deserto.
Ouarzazate ci
accoglie al tramonto, giusto il tempo di visitare la splendida
kasbah e di essere invitati ad entrare nella casa di un mercante
berbero. Di fronte all’immancabile tè alla menta ci immergiamo
in una realtà fiabesca fatta di racconti di altri tempi
attraverso le tribù nomadi del Sahara.
Lo stupore di
sapere che il berbero che ci troviamo davanti ha 4 mogli e 25
figli, si trasforma in curiosità. E allora, vista la
disponibilità dell’interlocutore, partono le domande più
svariate e imbarazzanti sugli usi e costumi della sua gente.
Alla vista dei meravigliosi tappeti stesi davanti a noi è
inevitabile la richiesta del prezzo. Si è fatto tardi, ci
congediamo dicendo che ripasseremo il mattino dopo per vedere
altre mercanzie ma immediatamente ci stoppa dicendo “Inshallah”
ovverosia “se Dio vorrà”. Già “Inshallah” ci dovremo abituare a
questa parola, che da queste parti corrisponde ad un atto di
fede più che ad una rassegnazione. Ed è un po’ la filosofia di
vita di un paese, il Marocco, sempre in bilico tra due mondi,
l’occidente ricco e industrializzato a cui anela far parte e
un’anima berbera e nomade, irriducibile e pervasa dall’orgoglio
della propria identità e delle proprie tradizioni.
Viaggiando verso
Tinehir le oasi si susseguono verdissime. I campi di menta
emanano un odore fortissimo che entra nel naso per darci una
sensazione immediata di freschezza. Un profumo che sulla strada
si confonde con quello delicato delle rose, che in questa valle
alimentano un florido commercio.
E come non
restare incantati di fronte alle Gole del Todra,
un’impressionante voragine tra due pareti altissime di granito
fra le quali scorre un fiume fresco e rigenerante.
Proseguendo, lo
sguardo è rapito dai colori che si stagliano lungo la cosiddetta
“strada delle mille kasbah”, che una dietro l’altra sfilano
davanti ai nostri avidi obiettivi. Il sole calante colora di un
rosso argilloso il tramonto davanti ad un pozzo di un piccolo
villaggio berbero, mentre il pensiero è già rivolto a domani,
quando proveremo veramente cosa significhi l’emozione di quella
parola che incute timore e fascino nello stesso tempo: il
deserto del Sahara.
E’ ancora pieno
giorno e fa molto caldo quando il fuoristrada sfreccia sulla
pista che da Erfoud ci porta a Merzouga, alle porte del grande
Erg. L’emozione prende il sopravvento quando da lontano si
intravedono le dune di sabbia. Tra le dune altissime dal colore
ambrato, il silenzio del deserto ci avvolge completamente mentre
cavalchiamo i nostri cammelli. Siamo circondati da dune sinuose
e altissime, ondulate come onde di un mare d’oro rosso o arancio
a seconda della luce di un sole che a poco a poco comincia a
calare all’orizzonte. La prima cosa che viene in mente di fare è
quella di togliersi le scarpe e sprofondare nella sabbia sottile
fino alle caviglie, poi rotolarsi per provare una sensazione
solo immaginata sui prati erbosi di quando si era bambini. E la
fatica di salire su una duna altissima è compensata dallo
spettacolo sbalorditivo che si presenta dalla cima, da dove lo
sguardo è finalmente libero di spaziare verso l’infinito delle
dune del deserto. Non resta che guardare incantati e sognare,
mentre un leggero soffio di vento ci accarezza il viso…E’ questo
il Sahara è questa la sua magia!
E’ difficile
riprendere il viaggio dopo certe emozioni, ma l’avventura
continua. Risaliamo l’Atlante puntando il nord del Paese per
raggiungere l’antica capitale imperiale Fes famosa per le
concerie. Proseguiamo poi per la vicina Meknes dove ammiriamo
l’imponente porta Bab el Mansour. Viviamo invece un
indimenticabile tramonto a Volubilis, antica città romana
esempio di cultura e potenza dei nostri antenati. Il tour
termina davanti all’Oceano, visitiamo l’immensa moschea Hassan
II di Casablanca, esempio di architettura moderna, seconda in
grandezza soltanto a quella della Mecca.
E poi
all’aeroporto il pensiero va inevitabilmente a tutto quello che
abbiamo visto e vissuto.
Così è il
Marocco, una terra di passione e di contrasti, dove la parola è
facile come la risata e il contatto. Il tempo non scorre in
Marocco, ma evapora, e dobbiamo catturarlo per viverlo. Il
Marocco non è una pura e semplice magia ma uno stato dell’anima.
Enrico VERNAZZA
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